Sulle orme di Basaglia

Primo cancello, secondo, terzo, quarto cancello. Il parco. A sinistra gli uomini, due palazzine, a destra le donne. In fondo, i cronici e gli agitati. Il mondo cominciava a finire dopo i quattro pilastri e il terrazzo d’ingresso, sotto la scritta rossa Ospedale Psichiatrico Provinciale. Ma 38 anni fa, il 13 maggio 1978, le prime figure lente e dondolanti, le prime persone opache e fragili, i matti senza più lacci ai polsi né fili elettrici in testa uscivano per sempre da qui. Il loro liberatore, il professor Franco Basaglia, sarebbe sopravvissuto appena due anni. Ma le sue idee, la battaglia perché un malato fosse soltanto un malato e non la sua malattia, restano vive e fresche come il primo giorno. Talmente vive che la Slovenia, dove ancora esistono sei manicomi, adesso ci chiede aiuto per diventare come noi e aprire le porte della reclusione sociale e del dolore indicibile.

«È un progetto da dieci milioni di euro e l’Italia ne sarà il modello. Per una volta, sono gli altri a copiare noi». Franco Perazza è uno psicologo. È alto, lungo, magro. Dirige il Dipartimento di salute mentale goriziano ed è orgoglioso che proprio qui, dove nel 1962 tutto iniziò con Basaglia, molto ancora continui. «Gli sloveni ci hanno chiesto di aiutarli a creare sul territorio un’assistenza sociale simile alla nostra, e di formare il personale. In Friuli-Venezia Giulia la legge 180 ha trovato piena realizzazione, abbiamo quattro centri di salute mentale per 4 mila persone in cura da Gorizia a Latisana. Non si ospedalizzano neppure i trattamenti sanitari obbligatori, ma si viene seguiti in emergenza e poi a domicilio. Non tutti sanno che l’Italia è stata la prima nazione a chiudere i manicomi».

Dov’era la cappella mortuaria, oggi c’è un laboratorio musicale gestito da una cooperativa che dà lavoro agli ex malati. E nelle stanze degli agitati hanno sistemato gli uffici. Nel parco Basaglia, un monumento di pietra ricorda un abbraccio o forse un ventre di donna. «Abbiamo anche piantato dieci ulivi insieme ai ragazzi delle scuole, qui gli alberi ormai cadevano e basta». Gianni Cavallini è il direttore sanitario dell’Aas 2. Non porta il camice bianco. «Andiamo, che vi offro un caffè con brioche in Slovenia, sono quattro passi». Le due Gorizie, quella “di qua” e quella “di là”. Il muro del vecchio manicomio correva lungo il confine, «qui i ricoverati scappavano in Jugo e poi li riportavano indietro». Scavalcavano la rete e fuggivano sotto i tigli dove finisce Gorizia e comincia Sempeter. La pietra bianca che segna la frontiera porta inciso da un lato “R. d’Italia 1947” e dall’altro “R. Slovenija”. Appena più avanti c’è il Sent, il centro riabilitativo psichiatrico con i lavoretti dei pazienti appesi ai vetri e un calciobalilla contro il muro. Di fronte, il baretto è pieno di slavi che alle nove e mezza di mattina già ci danno dentro con bianco e pivo, la birra che qui costa niente. Ma l’atmosfera antica svanisce dopo un paio di curve, e Nova Gorica si trasforma in una piccola Las Vegas punteggiata dai casinò illuminati a giorno, tra i palazzoni del socialismo reale: banche e outlet ne hanno cancellato il senso, non le architetture. Qui ci sono i soldi e si vede.

La dottoressa Petra Kokovarev ci aspetta nel suo ufficio alla Zdravsteni Dom, cioè la Casa della Salute che dirige da pochi mesi. Ha solo 40 anni. Quando Basaglia liberava i matti, lei andava all’asilo. «Il modello italiano è molto importante, molto interessante per noi. In questo momento una trentina di malati di Nova Gorica sono ricoverati al manicomio di Idria, nella Slovenia occidentale. Ancora non siamo pronti, purtroppo, ad utilizzare una rete di servizi sul territorio ma ci arriveremo. Serve unità. Dobbiamo dirlo, mentre l’Europa alza nuovamente assurdi muri contro l’integrazione. Un giorno, un malato sloveno potrà curarsi in Italia e viceversa ». Qui si era tentato di far nascere i bimbi italiani dopo la chiusura del reparto maternità di Gorizia. L’esperimento non ha funzionato perché le partorienti, in media appena una al giorno, hanno preferito Monfalcone, Palmanova e Trieste. «Ma con la malattia mentale sarà diverso », assicura Petra.

Quando la dottoressa Kokovarev aveva due anni, Norberto Bobbio definì la chiusura dei manicomi «l’unica vera legge di riforma del nostro Paese». Nel ’78, Basaglia l’avevano fatto scappare da Gorizia, già lavorava a Trieste. «È stata tutta una rimozione, e il senso di colpa ancora non è svanito». Il dottor Perazza ci accompagna in quello che fu lo studio del padre dell’antipsichiatria: in apparenza rimane, di quel tempo battagliero e prezioso, una semplice libreria in legno, però i muri sono pieni di manifesti colorati e dalle finestre entra il canto mattutino degli uccelli. Impossibile percorrere stanze e viali senza pensare allo strazio che contennero, alle mostruosità da campo di concentramento. «Ma la sottrazione di ogni diritto è diventata possibilità di una vita diversa, è diventata dignità, non dimentichiamolo mai». Curare e non più segregare. Non soltanto sedare. Tra qualche mese comincerà la gestione comune tra Italia e Slovenia per un bacino di quasi 80 mila abitanti, una piccola rivoluzione che non finisce mai. «Vedrete che tra un paio di generazioni Gorizia, Nova Gorica e Sempeter saranno per tutti una città sola». Ne è sicuro il direttore Cavallini mentre ci accompagna ai giardini di corso Verdi, dove alla Casa della Cultura hanno allestito la mostra “Le memoria restituita”. Alle finestre, uno striscione cubitale: “La libertà è terapeutica”. A metà mattina passa pure il sindaco Ettore Romoli, giunta di centrodestra. Un poco scherza, «ehi, siamo forse tornati al ’68?» e un poco no.

Il recupero del vecchio archivio del manicomio è una miniera di storie, spunti, documenti. Entrando, si sbatte contro un manichino con addosso la camicia di forza. Ci sono le lettere dei malati, un libro della biblioteca dell’ospedale che avrà forse alleviato qualche pena. Sulla parete scorre il documentario di Sergio Zavoli, “I giardini di Abele”, anno 1968, modernissimo esempio di giornalismo. Parla Basaglia, camminando nervosamente avanti e indietro («…la definirei una denuncia civile prima che una proposta psichiatrica »), si vedono scarpe e vestiti ammucchiati come ad Auschwitz, poi un malato che suona lo xilofono, chiavistelli, infermieri che si difendono («Non è vero che li picchiamo, dobbiamo solo proteggere gli altri ricoverati! »), ombre dolenti che barcollano nei viali e si tengono la testa tra le mani, muti. Si vedono i cancelli che cadono e, forse, l’inizio di una vita diversa. Quella di prima è qui nella stanza, appoggiata su una mensola: si chiama Convulsor. È una cuffia per l’elettroshock con morsetti e fili elettrici, grossi e attorcigliati come serpenti. Sui libro dei visitatori, una mano ha scritto mai più.

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