Da 180gradi
Si stima che nei reparti psichiatrici per acuti, in Italia, avvengano in media 20 contenzioni ogni 100 ricoveri (ISS 1994). Un problema molto esteso quindi, che coinvolge il 60% dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC) degli ospedali pubblici in Italia. E, in oltre il 70% degli SPDC sono comunque presenti gli strumenti per fare ricorso a questa orribile pratica di derivazione manicomiale. Non solo: la contenzione viene effettuata anche nelle carceri, nelle comunità terapeutiche, nei reparti di medicina e in quelli geriatrici, nei pronto soccorso, nelle Rems, e anche nelle residenze per gli anziani e persino nei reparti di neuropsichiatria infantile. Migliaia di casi al giorno.
Questi i dati emersi da Contenere la contenzione meccanica in Italia – primo rapporto sui diritti negati dalla pratica di legare coercitivamente i pazienti psichiatrici negli Spdc (clicca qui per accedere al documento), realizzato dall’Associazione A Buon Diritto grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo e della Chiesa Valdese e la collaborazione della rete della Campagna nazionale per l’abolizione della contenzione “E tu slegalo subito”. Lo studio è stato presentato a Roma il 28 febbraio scorso presso la sala del Senato di Santa Maria in Aquiro. Nel corso della conferenza stampa è stato inoltre annunciata l’avvenuta presentazione di un ddl, che vede come prima firmataria la senatrice Nerina Dirindin, per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sul tema. Infatti, anche secondo il senatore Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, che del Report ha scritto la prefazione, “non è più rimandabile un’attenta analisi di questo fenomeno, così come non possiamo esimerci dal chiedere al ministero della Salute di accogliere finalmente la raccomandazione del Comitato Nazionale di Bioetica e di avviare un monitoraggio in tutti i servizi psichiatrici di diagnosi e cura”.
Il report, che rappresenta l’esito di un’indagine conoscitiva preludio per ulteriori approfondimenti, si articola in quattro capitoli: nel primo Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto, affronta le problematiche giuridico-legali della contenzione, nel secondo vengono ricostruiti gli studi sperimentali presenti in ambito internazionale a fronte di una carenza di ricerche italiane in questo campo, il terzo riporta dettagliatamente i risultati di un’indagine interdisciplinare condotta da vari esperti di diverse competenze, mentre nel quarto capitolo la storia la scrivono i pazienti. Quattro di loro (fra i quali un medico), tre uomini e una donna piemontesi raccontano la propria drammatica esperienza ed è proprio attraverso la loro voce che possiamo capire il significato in termini umani di questa aberrante pratica. “Inaccettabile”, come ha sottolineato Vito D’Anza psichiatra e portavoce del Forum Salute Mentale, “perché umiliante, terrorizzante, generatrice di impotenza, angoscia e rabbia nel paziente, che è difficile da recuperare nel momento della riabilitazione”.
Come ha rilevato nell’introduzione il curatore del Rapporto, Sergio Mauceri, sociologo alla “Sapienza” di Roma, le ragioni del ricorso così frequente alla contenzione – che dovrebbe essere in vece considerata una misura “estrema” – sono da ascrivere innanzitutto alle disfunzionalità interne alle strutture, che rendono incapace il personale sanitario di far fonte a situazioni che richiederebbero cure psico-relazionali”. Incapacità di gestire le conflittualità tra staff e paziente, gestione verticistica degli SPDC, blocco del turnover (ma, paradossalmente, negli SPDC con più infermieri si lega di più), burn out degli operatori, sovraffollamento dei reparti, fanno il resto. Si preferisce quindi una via più sbrigativa senza tener conto che con tali coercizioni si possono solo innescare “circolarità perverse”, che oltretutto mettono a repentaglio la salute psicofisica del paziente, fino a provocarne la morte. Altra ragione è da ricercare nella “cortina di silenzio nella società civile”: pochi pazienti e pochi familiari denunciano quello che hanno subito e che costituisce di fatto una violazione della nostra Costituzione (artt.13 e 32), non solo a causa dello stigma e dei sensi di colpa che interiorizzano per l’accaduto, ma anche perché le contenzioni non verngono registrate in cartella clinica e per la scarsa credibilità di cui godono in tribunale le persone dopo esperienze simili. Questo ambito legale è oltretutto poco redditizio per gli avvocati, ai quali comunque è impedito di accedere ai reparti. Ineluttabile, poi, almeno per il curatore del testo la connessione con il Tso, sebbene la contenzione meccanica venga applicata “anche ai casi di ricovero volontario”. Ed anche sela persona in TSO mantiene, almeno teoricamente, tutti i suoi diritti, da quello di voto a quello di mantenere relazioni con l’esterno e opporsi attraverso un avvocato al trattamento stesso.
Mauceri ha stilato anche il terzo capitolo del Rapporto, in cui si incrociano sguardi esperti fra i quali quello del presidente dell’Associazione degli SPDC no restraint (i reparti dove le “buone pratiche” sono di casa ed i pazienti non vengono legati ai letti come negli SPDC restraint). Lorenzo Toresini sottolinea come la contenzione venga giustificata da un paradigma bio-genetico, “che determina la convinzione che la malattia mentale sia inguaribile e gestibile solo con mezzi coercitivi”. Tuttavia la contenzione non è mai atto terapeutico, ma anzi indice di fallimento delle terapie. Il curatore del Rapporto mette in guardia da una normazione in materia che finirebbe per legittimarla. Meglio, invece, a suo parere, “sanzionare ed intervenire laddove si verifichino abusi”. In conclusione, il Rapporto vuole essere uno strumento di empowerment per i pazienti e le loro famiglie, ma anche momento di riflessione critica per quanti operano nei Dsm del nostro Paese.
Ricordando, come ha scritto – in una nota in cui precisa alcuni punti – Giovanna Del Giudice, psichiatra che lavorò a fianco di Basaglia e che oggi è componente del Comitato Stop Opg, che “l’abolizione dei mezzi di coercizione – contenzione meccanica, letti a rete, camerini di isolamento, reti, inferriate, porte chiuse – fu tra i primi atti di grande valore etico e simbolico che, nelle esperienze innovative degli anni 60 e 70, a Gorizia, Colorno, Trieste, Nocera Superiore, Novara, Ferrara, Arezzo… avviarono processi di messa in discussione teorica e pratica del manicomio e dei suoi fondamenti giuridici e scientifici, fino alla sua definitiva chiusura”.
Se il manicomio non esiste più è perché, come ci rammenta Del Giudice “nel lontano 16 novembre 1961 Franco Basaglia, nel suo primo giorno di lavoro nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, disse di “No”, e rifiutandosi di firmare il registro delle contenzioni dette avvio ad un grande cambiamento che poneva fine alla negazione e violazione dei diritti e metteva le condizione per l’entrata delle persone con sofferenza mentale nella cittadinanza sociale”.