La riforma della psichiatria piemontese s’ha da rifare, perché lede i diritti dei pazienti. Così, il Tar ha appena azzerato per la seconda volta un iter legislativo che da tre anni toglie il sonno a familiari e utenti dei cosiddetti gruppi appartamento: ai quali, la delibera della giunta Chiamparino (Pd) imponeva di farsi carico di una quota dei costi di prestazione che poteva arrivare fino al 60 per cento. Così, mentre questi ultimi riprendono fiato, la querelle politica iniziata sotto il vessillo della vecchia amministrazione leghista e proseguita con l’insediamento dell’attuale governo di centro sinistra sembra più ingarbugliata che mai. “Oggi la psichiatria è morta: grazie al Pd torneremo al modello manicomiale ante Basaglia, negando il diritto di cura a oltre mille pazienti psichiatrici e scaricando sulle famiglie il costo delle rette”. In questi termini, lo scorso 16 settembre, era stato accolto il primo “sì” alla riforma, arrivato al termine di una seduta in quarta commissione regionale andata avanti per oltre 4 ore, dal momento che neanche la maggioranza riusciva a trovare una quadra sul testo. A pronunciare il funereo monito, dopo l’approvazione, fu il consigliere regionale d’opposizione Franco Graglia, in quota Forza Italia: il che era in un certo senso paradossale, se si considera che a scrivere la prima bozza di quella riforma, nel 2014, fu la giunta di centrodestra guidata da Roberto Cota (Lega Nord), di cui anche FI faceva parte.
Redatta in piena epoca di rientro sanitario, col fiato sul collo da parte del tavolo Massicci, quella prima bozza si inseriva nella linea generale di uno spostamento di competenze dalle Asl al settore socio assistenziale, con un aggravio di costi per pazienti e famiglie e stanziamenti pubblici incerti, dal momento che le prestazioni assistenziali, a differenza di quelle sanitarie, vengono erogate solo in subordine alla disponibilità di fondi nelle casse pubbliche. Ad andarci di mezzo, in quel caso, erano i pazienti dei cosiddetti “gruppi appartamento”, strutture di residenzialità “leggera” concepite dallo stesso Basaglia e composte da 2-4 utenti con la presenza defilata di un operatore, nelle quali si transita in conclusione di – o in alternativa a – un periodo trascorso in un reparto di salute mentale.
In termini concreti, la delibera avrebbe comportato un pesante aggravio economico per pazienti e famiglie, oltre a un futuro incerto per educatori e psicologi che vi lavoravano, dal momento che anche i parametri di gestione delle strutture venivano pesantemente rivisti. E fu per questo che, nell’aprile del 2014, a protestare in piazza insieme a questi ultimi c’erano anche diversi esponenti PD, all’epoca all’opposizione sui banchi del consiglio regionale. Esponenti che, poco più di un mese dopo, con la vittoria alle elezioni, si ritrovarono a governare, facendo a loro volta i conti con le restrizioni economiche imposte dal piano di rientro sanitario: e che, forse per questo – a nemmeno un anno di distanza da quelle prime polemiche – ripresentarono in forma praticamente identica la bozza leghista. I ruoli a quel punto erano semplicemente ribaltati, con la destra cittadina a contestare la riforma in precedenza ideata e il nuovo governo regionale a riproporla, dopo averla inizialmente avversata.
In tutto ciò, gli unici a rimanere fissi sulle proprie posizioni sono stati utenti, famiglie e operatori, che di recente a Torino si sono riuniti nel coordinamento Salute mentale: fino all’ultimo hanno cercato di bloccare la delibera, mentre pesanti riserve arrivavano anche dall’Associazione nazionale comuni (Anci); comuni che, come responsabili delle erogazioni assistenziali, rischiavano a Torino di doversi far carico di ulteriori costi fino ad allora di competenza Asl. Furono cinque i paletti posti dall’Anci e sottoscritti dal Pd, per arrivare a quella prima approvazione di settembre: in primo luogo la definizione di una soglia Isee che tenesse conto della fragilità dei malati; e poi il monitoraggio sui servizi offerti e sull’occupazione, la richiesta che – alla conclusione del Piano di rientro – le comunità alloggio e i gruppi appartamento venissero riportati a carico del Servizio sanitario e l’apertura di un tavolo di confronto sulla salute mentale.
Ma il condizionale è d’obbligo a questo punto: perché il Tar – accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato Vincenzo Palmieri, su mandato di un coordinamento di famiglie e associazioni – ha appena sospeso la delibera, riazzerando tutto per la seconda volta. L’udienza di merito è fissata per il prossimo 17 ottobre: a motivo della pronuncia, per il momento, i magistrati hanno chiarito che il ricorso ”pone delicate questioni giuridiche la cui disamina non appare compatibile con la cognizione sommaria propria della presente fase cautelare, necessitando di adeguato approfondimento nella sede di merito e considerato che in relazione alla tempistica dei provvedimenti impugnati può ritenersi sussistente il danno grave e irreparabile dedotto dalla parte ricorrente nelle more della definizione del presente giudizio”. In altre parole, più che cancellata, la riforma appare al momento congelata: alle famiglie, pur senza abbassare la guardia, rimane almeno il tempo di tirare il fiato, ché la storia recente delle battaglie regionali relative al welfare insegna che nulla è mai certo, e non di rado le sentenze vengono ribaltate. Tra nove mesi, il prossimo round