Un articolo di Umberto Eco
Se guardate i libri italiani sul retro della copertina, in alto o in basso, di solito in verticale, vi trovate una sigla con dei numeri. È il numero di codice, richiesto dalla legge, serve per le biblioteche e per la presidenza del consiglio, e insomma dice a che categoria il libro appartiene: se è narrativa, filologia romanza, glottologia, scienze fisiche o scienze morali. Quando in una casa editrice non si sa bene che numero di codice assegnare a un libro nuovo, è un buon segno. Vuole dire che non rientra negli schemi. Dico subito che non mi sono preso la pena di andare a decifrare la sigla CL 449099 che appare sul retro di Marco Cavallo, un libro a cura di Giuliano Scabia, pubblicato da Einaudi. Ho abbastanza esperienza per sapere che nell’elenco ministeriale non c’è una voce che corrisponda ai temi e ai problemi affrontati da Scabia in questo bellissimo libro.
Se volete è la storia di un esperimento di animazione, e per di più in un ospedale psichiatrico. Ma è anche un progetto nuovo di teatro. Ed è un manuale di comunicazione alternativa. Infine è un libro di estetica, perché suggerisce cosa potrebbe diventare la pratica artistica in una società non repressiva.
Giuliano Scabia è un uomo di teatro che fa teatro là dove gli altri non lo fanno. Va in giro per i paesi e fa muovere la gente. Nel 1972 è andato con un gruppo di collaboratori, invitato da Franco Basaglia, nell’ospedale psichiatrico di Trieste. Pittori, registri, fotografi, scrittori, insegnanti… Non sapevano bene quel che avrebbero fatto. Sapevano che non avrebbero mostrato i loro quadri o le loro opere teatrali, ma che avrebbero cercato di far disegnare, cantare, recitare, scrivere i “matti”. Ma si sa, i matti sono matti, per questo vanno in manicomio, e se scrivono o disegnano fanno delle cose molto individuali, che magari poi piacciono ai surrealisti: ma farli lavorare insieme, farli riflettere sul loro lavoro, usare quel che avrebbero fatto per creare situazioni di comunicazione e infine farli uscire dal manicomio per coinvolgere nella loro attività la gente di Trieste, tutto questo non sembrava facile. A prima vista la gente meno normale di tutta la faccenda erano proprio questi “normali” che decidevano di andare a fare arte con i matti.
Come accade con tutti i libri singolari, il riassumerli li ammazza. Perché il fascino di Marco Cavallo sta nel racconto a diario, steso giorno per giorno, da quando la troupe si installa in un laboratorio del manicomio, a quando i vari degenti a poco a poco si avvicinano e cominciano a lavorare, mentre altri resistono, qualcuno fa ostruzionismo, altri ancora cedono via via, il nucleo di operatori iniziali aumenta, nascono manifesti, dipinti, giornali murali, ambienti favolosi, e si procede lentamente alla costruzione di un grande pupazzo in legno e cartapesta, un cavallo. Marco Cavallo, che diventa a poco a poco il simbolo di questa grande festa liberatoria, in cui accadono cose importanti per l’arte e la comunicazione, ma anche cose importanti per la psichiatria a quanto pare, e individui che sino ad allora erano rimasti chiusi a ogni rapporto dialogico, trovano una dimensione collettiva e persino si scopre che possono tornare a casa.
Eviterò dunque il riassunto e mi soffermerò sulle pagine finali in cui Scabia traccia una lista di sistemi di comunicazione che sono stati messi in opera durante quell’esperienza.
Anzitutto c’era il laboratorio: uno spazio aperto in cui chiunque potesse entrare e inventare era già una dichiarazione. Si parla anche disponendo spazi. Poi c’erano degli schemi vuoti, delle sorte di canovacci, che nascevano via via a seconda delle situazioni e sulla base dei quali alcuni potevano cantare delle storie, altri dipingere dei pannelli, altri ancora improvvisare una recita. La libertà del canovaccio faceva sì che lo spazio fosse continuamente ristrutturabile: trasformare lo spazio in cui si agisce è un modo di esprimersi. C’era la storia di Marco Cavallo, asse portante dell’intera esperienza, ma in essa si inseriva la presenza del pupazzo (un Gigante, come tale evocatore di miti, ricordi, fantasie collettive), con la pancia piena di altre cose; Marco era un pupazzo e una caverna del tesoro e chiunque poteva esprimersi riempendolo di qualcosa. C’erano poi i giornali murali, il volantino quotidiano, i manifesti per la città. Ma queste erano le forme di comunicazione più ovvie.
Scabia registra invece, tra le forme di comunicazione che non sembrano tali, le visite di porta in porta: significava togliere il privilegio ai luoghi deputati della comunicazione, ed è una tecnica che Scabia ha adottato anche per le esperienze teatrali nei paesi, dove talvolta va a rappresentare una azione in una casa, per una sola famiglia, in cucina. E c’erano le lettere, con le quali i degenti spesso comunicavano con gli operatori, ficcandogliele in tasca, appendendole al muro.
Ma la comunicazione avveniva anche per altre vie. Per esempio i burattini, che devono essere fatti da tutti, e devono cominciare a parlare e ad agire prima di essere finiti (come Pinocchio), e vengono subito forniti di una biografia, mentre altri ne cuciono i vestiti; non solo, ma coi burattini si viaggia (come i ventriloqui con il loro pupazzo) e “il burattino diventa come una sonda con cui si penetra nello spazio esterno e nel mondo interiore”. Nel fare queste cose occorrono attrezzi, e gradatamente (specie in un luogo di preoccupata prudenza come un manicomio) anche le forbici, le seghe, i coltelli, i trapani, diventano strumenti di comunicazione, già nel maneggiarli il degente manifestava la propria autonomia, la propria volontà responsabile di partecipazione. Non parleremo del disegnare, ma Scabia si sofferma anche sulla grandezza dei fogli a disposizione che, come lo spazio aperto in cui si lavorava, erano già uno stimolo creativo. E infine c’erano le canzoni, e per cantare non era necessario avere un testo prefissato, si improvvisavano strofe (alcune riportate nel libro sono qualcosa di più di uno sfogo e di una invenzione lì per lì). Ma da un disegno di poteva passare a un discorso più vasto facendo di quel disegno un ritratto, dove la somiglianza non è necessaria, il disegno diventa ritratto anche perché ci si scrive sotto il nome del ritrattato, e si spiega perché si è posta quella correlazione.
I disegni e le lettere legate insieme diventano libri. I libri vengono drammatizzati. Le storie drammatizzate vengono cantate accompagnate con strumenti di ogni tipo, anche bidoni vuoti, martelli, sedie. O si balla. O si fanno cortei musicali. O azioni mimiche. O si riempie una sala di oggetti sospesi, sagome di animali fantastici, fiori, nuvole, e una volta è nato un Paradiso Terrestre. Vogliamo continuare? C’è la fotografia, il registratore, l’uso del corpo, la riscoperta del contatto fisico (la gente si tocca), l’assemblea e infine, come silloge di tutte queste azioni, la festa.
Chi si occupa di insegnamenti non repressivi nelle scuole primarie, di animazione teatrale, di nuove pratiche creative, avrà riconosciuto molti di questi procedimenti e penserà che la singolarità dell’esperimento di Scabia stia solo nel fatto che tutto ciò è stato fatto con i matti. Ebbene, io trovo che di singolare, in questa faccenda, ci sia il fatto che l’esperimento abbia potuto avvenire solo con i matti. Ma chi sono i matti se noi, i “sani”, riusciamo a concepire la comunicazione solo leggendo un giornale scritto daaltri, andando al cinema o a teatro, circolando con tristezza per le mostre dove altri hanno disegnato, scolpito, dipinto, sedendoci compostamente ai concerti dove altri suonano?
Come ha potuto l’esercizio dell’inventiva e del gioco diventare una faccenda per specializzati (considerati d’altronde un po’ matti), a cui i sani sono ammessi solo come auditori passivi? Come può un artista che crede a quello che fa adattarsi a produrre oggetti che altri guarderanno senza sapere come sono nati, invece di buttarsi in situazioni di partecipazione in cui gli altri imparino a fare gli oggetti con lui? Scabia si comporta molto correttamente, racconta la storia della sua esperienza, a nome anche dei suoi amici, e non ne trae commenti troppo metafisici. Ma è chiaro che il messaggio finale di Marco Cavallo è che i matti siamo noi.