Una recensione di Slegalo! Usi e abusi della psichiatria, graphic novel sul tema della contenzione edita da Beccogiallo Editore Alice Banfi: Credo sia necessaria una forte personalità. Io ricordavo loro ogni secondo che stavano sbagliando, che erano brutali e freddi, e che da me avrebbero ottenuto tutto il peggio che io potevo offrire. Mentre sarebbe bastato che un medico o un infermiere avesse avuto per me uno sguardo affettuoso per ottenere tutta la mia collaborazione. Gli operatori che negli anni sono riusciti ad avere a che fare con me avevano ben presente che il mio punto debole – e il mio punto di forza – erano i sentimenti. Che non avrei mai aggredito chi era gentile e premuroso con me. Che in questo io ero di una semplicità allarmante, quasi primitiva: se sei buono, sarò buona. Se sei cattivo, io lo sarò di più, e non mollerò mai. A me è servito non cedere a questa violenza. La disobbedienza, in questo senso, mi ha salvata. Dimostrare che non mi piegavo mi permetteva di non piegarmi realmente, di rimanere, dentro me stessa, integra. Non sono riusciti a farmi sentire uno schifo, colpevole o complice, proprio perché non cedevo a quelle violenze. Di fronte alla malattia, al mio dolore, mi sentivo persa, mentre rispetto alla contenzione mi sentivo forte. Era un nemico così ben disegnato, talmente cattivo, che non mi lasciava dubbi. Anna Poma: Nel tuo libro, Tanto scappo lo stesso. Romanzo di una matta, racconti di te ma anche delle altre persone che vedevi legate e che aiutavi a liberarsi. Di quali “strumenti condivisi” abbiamo bisogno per contrastare queste palesi violazioni del diritto? Alice Banfi: Sarebbe bello dire soltanto: di empatia. Guardare l’altro e trattarlo sempre come come fosse noi. Cercare di immaginare i sentimenti dell’altro, la paura, il dolore, la rabbia, è difficile ma vale la pena provarci. Ci migliora come persone, come professionisti, e funziona sicuramente meglio che legare, che invece non funziona, non funziona per niente. Ma non basta: ci vuole una legge che vieti di legare. Ci vogliono più luoghi, perché ce ne sono ma sono pochi, che propongano un modo diverso per curare le persone, per affrontare la loro rabbia, e la disperazione e la violenza che ne derivano. Le buone pratiche esistono e si dovrebbero allargare a macchia d’olio, mentre le cattive pratiche dovrebbero essere penalizzate, punite, messe fuorigioco. Anna Poma: In Italia manca una legge contro il reato di tortura. Se ci fosse, pensi che queste pratiche – che come sappiamo hanno talvolta esiti fatali – andrebbero equiparate alla tortura? Alice Banfi: Venire legati è tortura. Le persone che mi hanno raccontato le loro esperienze di contenzione, oltre alla contenzione stessa hanno subito cose terribili. Ai tempi del ricovero G. aveva 22 anni, e quando era legata un infermiere la molestava sessualmente. F., invece, mi ha raccontato che gli urlavano contro, mentre lo legavano, e che un infermiere gli è salito sul petto con tutto il peso, con le ginocchia, e lui si è sentito soffocare. C. veniva lasciato per giorni nei suoi escrementi, così sedato che nemmeno se ne accorgeva. È stata la sorella a farlo liberare, e a raccontarmi la sua storia. Ricordo poi M., un omone barbuto che era uscito dalla sua stanza in mutande, con i piedi legati al letto, e si era trascinato dietro anche quello. Si era alzato perché aveva sete. Ho visto uomini e donne piangere come bambini, col moccio al naso, o urlare in un modo che non so descrivere e che nessuno può immaginare. Ho visto un ragazzino con un trauma facciale legato per ore. Poi gli occhi che si giravano all’indietro e la corsa per trasportarlo, con il letto a cui era ancora legato, fuori dal reparto, verso la medicina d’urgenza. Son passati i giorni, e non l’ho visto più. La contenzione è tortura e viene usata per annullare le persone che la subiscono. Però io penso che ci voglia una legge apposita, perché già c’è il reato di sequestro di persona e violenza personale, già la Costituzione parla chiaro sul diritto di libertà. Ma non basta. Ci vuole una legge che la vieti senza spazio per interpretazioni, senza bisogno che la vittima si esponga sempre e ancora una volta in prima persona. 0 0 OPG: così si fa marcia indietro! La forza di dire “no”: 36 anni fa moriva Franco Basaglia 0 Commenti Lascia una rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commentonome Email Sito web Δ Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
Una recensione di Slegalo! Usi e abusi della psichiatria, graphic novel sul tema della contenzione edita da Beccogiallo Editore Alice Banfi: Credo sia necessaria una forte personalità. Io ricordavo loro ogni secondo che stavano sbagliando, che erano brutali e freddi, e che da me avrebbero ottenuto tutto il peggio che io potevo offrire. Mentre sarebbe bastato che un medico o un infermiere avesse avuto per me uno sguardo affettuoso per ottenere tutta la mia collaborazione. Gli operatori che negli anni sono riusciti ad avere a che fare con me avevano ben presente che il mio punto debole – e il mio punto di forza – erano i sentimenti. Che non avrei mai aggredito chi era gentile e premuroso con me. Che in questo io ero di una semplicità allarmante, quasi primitiva: se sei buono, sarò buona. Se sei cattivo, io lo sarò di più, e non mollerò mai. A me è servito non cedere a questa violenza. La disobbedienza, in questo senso, mi ha salvata. Dimostrare che non mi piegavo mi permetteva di non piegarmi realmente, di rimanere, dentro me stessa, integra. Non sono riusciti a farmi sentire uno schifo, colpevole o complice, proprio perché non cedevo a quelle violenze. Di fronte alla malattia, al mio dolore, mi sentivo persa, mentre rispetto alla contenzione mi sentivo forte. Era un nemico così ben disegnato, talmente cattivo, che non mi lasciava dubbi. Anna Poma: Nel tuo libro, Tanto scappo lo stesso. Romanzo di una matta, racconti di te ma anche delle altre persone che vedevi legate e che aiutavi a liberarsi. Di quali “strumenti condivisi” abbiamo bisogno per contrastare queste palesi violazioni del diritto? Alice Banfi: Sarebbe bello dire soltanto: di empatia. Guardare l’altro e trattarlo sempre come come fosse noi. Cercare di immaginare i sentimenti dell’altro, la paura, il dolore, la rabbia, è difficile ma vale la pena provarci. Ci migliora come persone, come professionisti, e funziona sicuramente meglio che legare, che invece non funziona, non funziona per niente. Ma non basta: ci vuole una legge che vieti di legare. Ci vogliono più luoghi, perché ce ne sono ma sono pochi, che propongano un modo diverso per curare le persone, per affrontare la loro rabbia, e la disperazione e la violenza che ne derivano. Le buone pratiche esistono e si dovrebbero allargare a macchia d’olio, mentre le cattive pratiche dovrebbero essere penalizzate, punite, messe fuorigioco. Anna Poma: In Italia manca una legge contro il reato di tortura. Se ci fosse, pensi che queste pratiche – che come sappiamo hanno talvolta esiti fatali – andrebbero equiparate alla tortura? Alice Banfi: Venire legati è tortura. Le persone che mi hanno raccontato le loro esperienze di contenzione, oltre alla contenzione stessa hanno subito cose terribili. Ai tempi del ricovero G. aveva 22 anni, e quando era legata un infermiere la molestava sessualmente. F., invece, mi ha raccontato che gli urlavano contro, mentre lo legavano, e che un infermiere gli è salito sul petto con tutto il peso, con le ginocchia, e lui si è sentito soffocare. C. veniva lasciato per giorni nei suoi escrementi, così sedato che nemmeno se ne accorgeva. È stata la sorella a farlo liberare, e a raccontarmi la sua storia. Ricordo poi M., un omone barbuto che era uscito dalla sua stanza in mutande, con i piedi legati al letto, e si era trascinato dietro anche quello. Si era alzato perché aveva sete. Ho visto uomini e donne piangere come bambini, col moccio al naso, o urlare in un modo che non so descrivere e che nessuno può immaginare. Ho visto un ragazzino con un trauma facciale legato per ore. Poi gli occhi che si giravano all’indietro e la corsa per trasportarlo, con il letto a cui era ancora legato, fuori dal reparto, verso la medicina d’urgenza. Son passati i giorni, e non l’ho visto più. La contenzione è tortura e viene usata per annullare le persone che la subiscono. Però io penso che ci voglia una legge apposita, perché già c’è il reato di sequestro di persona e violenza personale, già la Costituzione parla chiaro sul diritto di libertà. Ma non basta. Ci vuole una legge che la vieti senza spazio per interpretazioni, senza bisogno che la vittima si esponga sempre e ancora una volta in prima persona.
Alice Banfi: Credo sia necessaria una forte personalità. Io ricordavo loro ogni secondo che stavano sbagliando, che erano brutali e freddi, e che da me avrebbero ottenuto tutto il peggio che io potevo offrire. Mentre sarebbe bastato che un medico o un infermiere avesse avuto per me uno sguardo affettuoso per ottenere tutta la mia collaborazione. Gli operatori che negli anni sono riusciti ad avere a che fare con me avevano ben presente che il mio punto debole – e il mio punto di forza – erano i sentimenti. Che non avrei mai aggredito chi era gentile e premuroso con me. Che in questo io ero di una semplicità allarmante, quasi primitiva: se sei buono, sarò buona. Se sei cattivo, io lo sarò di più, e non mollerò mai. A me è servito non cedere a questa violenza. La disobbedienza, in questo senso, mi ha salvata. Dimostrare che non mi piegavo mi permetteva di non piegarmi realmente, di rimanere, dentro me stessa, integra. Non sono riusciti a farmi sentire uno schifo, colpevole o complice, proprio perché non cedevo a quelle violenze. Di fronte alla malattia, al mio dolore, mi sentivo persa, mentre rispetto alla contenzione mi sentivo forte. Era un nemico così ben disegnato, talmente cattivo, che non mi lasciava dubbi. Anna Poma: Nel tuo libro, Tanto scappo lo stesso. Romanzo di una matta, racconti di te ma anche delle altre persone che vedevi legate e che aiutavi a liberarsi. Di quali “strumenti condivisi” abbiamo bisogno per contrastare queste palesi violazioni del diritto? Alice Banfi: Sarebbe bello dire soltanto: di empatia. Guardare l’altro e trattarlo sempre come come fosse noi. Cercare di immaginare i sentimenti dell’altro, la paura, il dolore, la rabbia, è difficile ma vale la pena provarci. Ci migliora come persone, come professionisti, e funziona sicuramente meglio che legare, che invece non funziona, non funziona per niente. Ma non basta: ci vuole una legge che vieti di legare. Ci vogliono più luoghi, perché ce ne sono ma sono pochi, che propongano un modo diverso per curare le persone, per affrontare la loro rabbia, e la disperazione e la violenza che ne derivano. Le buone pratiche esistono e si dovrebbero allargare a macchia d’olio, mentre le cattive pratiche dovrebbero essere penalizzate, punite, messe fuorigioco. Anna Poma: In Italia manca una legge contro il reato di tortura. Se ci fosse, pensi che queste pratiche – che come sappiamo hanno talvolta esiti fatali – andrebbero equiparate alla tortura? Alice Banfi: Venire legati è tortura. Le persone che mi hanno raccontato le loro esperienze di contenzione, oltre alla contenzione stessa hanno subito cose terribili. Ai tempi del ricovero G. aveva 22 anni, e quando era legata un infermiere la molestava sessualmente. F., invece, mi ha raccontato che gli urlavano contro, mentre lo legavano, e che un infermiere gli è salito sul petto con tutto il peso, con le ginocchia, e lui si è sentito soffocare. C. veniva lasciato per giorni nei suoi escrementi, così sedato che nemmeno se ne accorgeva. È stata la sorella a farlo liberare, e a raccontarmi la sua storia. Ricordo poi M., un omone barbuto che era uscito dalla sua stanza in mutande, con i piedi legati al letto, e si era trascinato dietro anche quello. Si era alzato perché aveva sete. Ho visto uomini e donne piangere come bambini, col moccio al naso, o urlare in un modo che non so descrivere e che nessuno può immaginare. Ho visto un ragazzino con un trauma facciale legato per ore. Poi gli occhi che si giravano all’indietro e la corsa per trasportarlo, con il letto a cui era ancora legato, fuori dal reparto, verso la medicina d’urgenza. Son passati i giorni, e non l’ho visto più. La contenzione è tortura e viene usata per annullare le persone che la subiscono. Però io penso che ci voglia una legge apposita, perché già c’è il reato di sequestro di persona e violenza personale, già la Costituzione parla chiaro sul diritto di libertà. Ma non basta. Ci vuole una legge che la vieti senza spazio per interpretazioni, senza bisogno che la vittima si esponga sempre e ancora una volta in prima persona.