Da La Stampa Le «malattie» religiose Il progetto documenta due secoli di emarginazione sociale, economica e culturale, di donne rinchiuse perché troppo chiacchierone o «affette» da sensualità, bambini poveri, segregati perché vivaci e irrequieti, uomini con diagnosi politiche, etichettati come «mazziniani» o «repubblicani». Dalle carte emerge lo sguardo di come «i sani» e i dottori guardavano ai «matti» (spesso presunti). Donne segregate perché «troppo erotiche», petulanti, impertinenti e ribelli, o alle quali è stata diagnosticata la «malattia» della depressione post partum. «Ciò che emerge è che la ribellione viene punita con una diagnosi di malattia mentale – continua Procaccia -, dove, ad esempio, il “mal d’amore” coincide con la depressione per essere state lasciate. I manicomi sono stati anche strumento di contenimento, di controllo sociale, e ci finiscono spesso le categorie di persone che danno fastidio». Una cartella clinica racconta di una fanciulla di buona società campana che fu rinchiusa per comportamenti devianti non consoni a una brava ragazza della sua epoca. C’è pure la storia di Violet Gibson, la donna che attentò alla vita di Benito Mussolini e che fu internata in un manicomio in Gran Bretagna: era considerata matta anche perché non aveva il desiderio di tirar su famiglia. I bambini rinchiusi, perché ribelli o scatenati, sono poveri, ai margini della società, e la segregazione nei manicomi li ha progressivamente allontanati dalla realtà. «Socialisti», «mazziniani», «anarchici» e «repubblicani» sono alcune tra le diagnosi con motivazioni politiche che giustificavano il ricovero di personaggi scomodi. Uomini vagabondi, o reputati improduttivi, finivano nei manicomi e negli ospedali psichiatrici. C’è anche la storia del commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Dosi, noto alle cronache per aver smontato le prove che incastravano ingiustamente Gino Girolimoni, accusato di stupri e omicidi: venne internato nel manicomio criminale di Regina Coeli e poi fu riabilitato. Tra le diagnosi «religiose» spunta una donna, «la pazza vestita da frate», mentre la storia delle strutture narra deportazioni di ebrei dal manicomio di Venezia, e di altri che vi si nascondevano per sfuggire le razzie. I traumi da trincea «Tra il ’18 e il ’19 negli ospedali psichiatrici, in particolare nel Veneto, c’è un innalzamento di ricoveri di soldati che hanno avuto il trauma da trincea – spiega Procaccia -. E lo stress post traumatico viene scambiato per malattia mentale». Il picco dei ricoveri che si registra a partire dalla fine della Prima guerra mondiale per traumi da trincea è dato dalle reazioni scomposte dei «matti» a forti rumori, sintomo, stando alle cartelle cliniche, di malattia mentale. 0 0 “Vogliono mettere mio figlio in un mini-manicomio!” Giornata della Salute Mentale: il “primo aiuto” argina i traumi 0 Commenti Lascia una rispostaIl tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *Commentonome Email Sito web Δ Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.
Da La Stampa Le «malattie» religiose Il progetto documenta due secoli di emarginazione sociale, economica e culturale, di donne rinchiuse perché troppo chiacchierone o «affette» da sensualità, bambini poveri, segregati perché vivaci e irrequieti, uomini con diagnosi politiche, etichettati come «mazziniani» o «repubblicani». Dalle carte emerge lo sguardo di come «i sani» e i dottori guardavano ai «matti» (spesso presunti). Donne segregate perché «troppo erotiche», petulanti, impertinenti e ribelli, o alle quali è stata diagnosticata la «malattia» della depressione post partum. «Ciò che emerge è che la ribellione viene punita con una diagnosi di malattia mentale – continua Procaccia -, dove, ad esempio, il “mal d’amore” coincide con la depressione per essere state lasciate. I manicomi sono stati anche strumento di contenimento, di controllo sociale, e ci finiscono spesso le categorie di persone che danno fastidio». Una cartella clinica racconta di una fanciulla di buona società campana che fu rinchiusa per comportamenti devianti non consoni a una brava ragazza della sua epoca. C’è pure la storia di Violet Gibson, la donna che attentò alla vita di Benito Mussolini e che fu internata in un manicomio in Gran Bretagna: era considerata matta anche perché non aveva il desiderio di tirar su famiglia. I bambini rinchiusi, perché ribelli o scatenati, sono poveri, ai margini della società, e la segregazione nei manicomi li ha progressivamente allontanati dalla realtà. «Socialisti», «mazziniani», «anarchici» e «repubblicani» sono alcune tra le diagnosi con motivazioni politiche che giustificavano il ricovero di personaggi scomodi. Uomini vagabondi, o reputati improduttivi, finivano nei manicomi e negli ospedali psichiatrici. C’è anche la storia del commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Dosi, noto alle cronache per aver smontato le prove che incastravano ingiustamente Gino Girolimoni, accusato di stupri e omicidi: venne internato nel manicomio criminale di Regina Coeli e poi fu riabilitato. Tra le diagnosi «religiose» spunta una donna, «la pazza vestita da frate», mentre la storia delle strutture narra deportazioni di ebrei dal manicomio di Venezia, e di altri che vi si nascondevano per sfuggire le razzie. I traumi da trincea «Tra il ’18 e il ’19 negli ospedali psichiatrici, in particolare nel Veneto, c’è un innalzamento di ricoveri di soldati che hanno avuto il trauma da trincea – spiega Procaccia -. E lo stress post traumatico viene scambiato per malattia mentale». Il picco dei ricoveri che si registra a partire dalla fine della Prima guerra mondiale per traumi da trincea è dato dalle reazioni scomposte dei «matti» a forti rumori, sintomo, stando alle cartelle cliniche, di malattia mentale.