L’Italia vista attraverso le Rems

L’intervista del Gruppo Abele a Giovanna Del Giudice, che, per StopOpg, ha intrapreso il viaggio nelle Rems insieme al presidente del comitato Stefano Cecconi.

Pubblichiamo parte dell’intervista; è possibile leggere l’intervento integrale sul sito del Gruppo Abele.

Al momento ne avete visitate quattro. Qual è l’elemento più evidente?
Nelle quattro strutture di Maniago, Mondragone, Pontecorvo e Roccaromana sono internate 42 persone in tutto. Oltre la metà di loro non proviene da Opg, ma si trova nelle Residenze a seguito dell’esecuzione di una misura di sicurezza provvisoria. Questo ci racconta che la magistratura di cognizione non sta operando nel rispetto della legge 81/2014 laddove questa prevede la detenzione in Rems solo come ultima possibilità. C’è, evidentemente, una poca conoscenza della normativa o una sua cattiva interpretazione. È un problema estremamente serio che speriamo possa essere affrontato da un Commissario nazionale che, al momento, ancora non è stato nominato.

Nel report che avete redatto dopo queste prime visite, a proposito di alcune strutture, parlate di “segni visibili del mandato custodiale”. Che significa?
Significa che, seppure rispetto ad alcuni orrori degli Opg qualcosa è cambiato, c’è ancora molto lavoro da fare. Nella Rems femminile di Pontecorvo, ad esempio, dove sono internate 12 donne, per quel che concerne l’organizzazione degli spazi è stato preso a riferimento il modello di Castiglione delle Stiviere. Succede così che, dietro un’apparenza di pulizia, dietro il colore delle pareti, permangono vere e proprie forme di sequestro delle persone e di controllo e vigilanza che nulla hanno a che fare con le finalità di cura che dovrebbe avere: metal detector all’ingresso, finestre alte e sbarrate, vetri opachi per impedire che si possa guardare all’interno. Soprattutto, le porte delle stanze che si aprono solo dall’esterno con chiavi in possesso degli operatori. Ufficialmente, si tratta di misure a garanzia della sicurezza. In verità non solo non esiste sicurezza laddove vengono lese le libertà personali (la libertà è una forma di sicurezza), ma la storia insegna che il pericolo per la salute dei pazienti è molto grande in casi come questi.

Qual è il grado di integrazione tra le comunità locali e le Rems?
Purtroppo non sempre buono. Prendo un caso per tutti, quello di Roccaromana, nel casertano. La residenza è ubicata al di fuori del centro abitato, per giunta in un paese che non è servito da mezzi pubblici. Isolata. I familiari dei pazienti, quando non sono automuniti, hanno difficoltà nell’incontrare i propri cari. Sono casi al limite dell’assurdo, strutture figlie di una logica ottocentesca, che pone l’elemento di turbativa lontano dallo sguardo della società. Ma noi sappiamo che tutto quanto è fuori dallo sguardo può generare mostruosità e si espone alla violazione dei diritti.
Viceversa, abbiamo riscontrato gestioni virtuose a Maniago e Mondragone. In questi due casi, le Residenze sono inserite in strutture residenziali e diurne del Dipartimento di salute mentale già preesistente, dove le persone internate si mescolano e si integrano con le altre persone e attività proprie di quel servizio; usano gli stessi luoghi; fanno le stesse attività: si rivolgono agli stessi operatori ed escono, se accompagnati, dalla struttura. Ecco, questo sforzo va ripetuto e imitato. D’altronde, sono gli stessi operatori a dire che le persone in misure di sicurezza preventiva non sono diverse da quelle degli altri centri di salute mentale: per questo è inutile creare istituzioni deputate. Basta prendercene carico nei normali servizi di salute mentale, evitando così, a monte, ogni pericolo di sequestro.

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