Per esempio. Rosa D. «fin da fanciulla si mostrava strana, da giovinetta poi ben presto si manifestò il suo carattere stravagante, girando continuamente per il paese senza badare alla sua famiglia e non curando punto i rimproveri dei parenti». Adelaide C «in famiglia è assolutamente incompatibile, intollerabile e intollerante di tutto e di tutti». Maria Filomena M. «spesse volte e all’insaputa della famiglia esce di notte egirovaga per la campagna, si denuda e non sempre il fratello la può raggiungere».
Per loro, per tutte, urgeva il manicomio. E peccato, poi, che certe diagnosi fossero sommarie, che rispondessero al modello unico di donna previsto dal regime, sposa e madre e mai da sola.
Bisogna guardare le loro facce, e leggere le loro lettere, per chiedersi chi fosse il vero pazzo.
«Mi trovo rinchiusa, in questa carcere, così, in mezzo ai pazzi e a momenti fan diventare pazza anche me!»,
raccontò Crocifissa G. nel 1906. E Ginevra B, nel 1918:
«Sono stufa della vita vorrei morire piuttosto che stare sotto la Carneficina dell’Ospedale di Teramo».
Angeladea F., negli anni 30:
«Ti prego per l’amore di Papà e fratelli di venirmi a salvarmi da questo brutto luogo che lo odio non ci voglio stare nemmeno a morire».
Haidé B., nel 1920:
«Io trovarmi in questa sezione, tra malate d’ogni genere, tra le sofferenti, tra le asmatiche, tra le dementi, con visi stravolti, con il fetore della notte, da sentirmi difficile la respirazione; oh, questo è troppo, troppo».
Le loro testimonianze non sono state vane. A raccoglierle sono statiAnnacarla Valeriano e Costantino Di Sante, che hanno voluto restituire dignità alle tante (troppe) recluse estromesse dalla società durante il Ventennio. Ci sono riusciti con la mostra fotografica I fiori del male, donne in manicomio nel regime fascista, che ha messo insieme immagini e documenti, schede mediche e lettere.
Si è aperta, non a caso, l’8 marzo nella biblioteca provinciale Melchiorre Delfico di Teramo, fino al 31 marzo. Il materiale è stato ricavato dall’archivio dell’Ospedale psichiatrico Sant’Antonio Abate di Teramo, che fu chiuso definitivamente il 31 marzo del 1998, vent’anni dopo l’entrata in vigore della legge 180 (la legge Basaglia).
Nicola Serroni, direttore del Dipartimento di salute mentale di Teramo, nel catalogo della mostra curato da Valeriano e Di Sante, ammette: «Sfogliando le cartelle delle donne ricoverate sono rimasto profondamente colpito dalle diagnosi, che spesso nulla avevano a che fare con problematiche psicopatologiche reali; rimandavano soprattutto a problemi legati alla moralità o ad altro tipo di devianza, vagabondaggio sessuale, turpiloquio, rifiuto del lavoro domestico-familiare, rifiuto dell’accudimento dei figli, rottura o messa in discussione “anomala” del rapporto di coppia. E tutto ciò conferma che i manicomi in moltissimi casi venivano usati per fini repressivi, per affermare nella vita di tutti i giorni la subordinazione e l’inferiorità della donna».